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SCIA e autotutela: il potere di annullamento che in realtà non esiste

SCIA e autotutela

Il potere di annullamento che in realtà non esiste

Introduzione

Da quando è stata licenziata la riforma Madìa, accade con cadenza quasi regolare che qualcuno capiti in studio o mi fermi nella pausa di una conferenza per domandarmi “ma per l’annullamento in autotutela della SCIA vale il termine di 18 mesi?”.

A quel punto sono costretto a rispondere sempre con la stessa domanda “quale annullamento?” e ad imbarcarmi in un soliloquio in legalese che normalmente lascia il mio interlocutore peggio di come lo ha trovato.

Dato che la questione evidentemente interessa, l’equivoco è diffuso e che il termine “annullamento”, a pari merito con la parola “nullità”, è il più abusato della storia del diritto, credo sia giunto il momento di provare per iscritto a sfatare il mito.

Innanzitutto, per circoscrivere l’ambito di questo approfondimento, dalla la domanda che ho riportato all’inizio si devono in realtà estrapolare due quesiti: il primo consiste nel domandarsi se la SCIA possa essere annullata in autotutela dalla pubblica amministrazione depositaria e il secondo nel chiedersi se in materia di SCIA i poteri di intervento dell’amministrazione debbano esercitarsi, in via ordinaria e salvo l’incidente del falso (che è regolato da una disciplina peculiare), entro il limite temporale di diciotto mesi previsto dall’art. 21 nonies L. 241/1990.

La risposta a questi quesiti è quasi ovvia, a patto di aver preliminarmente ben chiara la natura giuridica della SCIA.

La natura giuridica della SCIA (e della DIA)

La SCIA, acronimo di Segnalazione Certificata di Inizio Attività, è stata introdotta nell’ordinamento tramite il D.L. 78/2010, conv. nella L. 122/2010 (a cui sono seguiti numerosi provvedimenti che hanno plasmato l’istituto conferendogli la fisionomia che ha oggi) e costituisce l’evoluzione della DIA (Dichiarazione o Denuncia di Inizio Attività), inserita a sua volta come istituto generale dalla L. 241/1990 e sviluppata con innumerevoli interventi sia a livello generale che settoriale, da cui eredita lo schema fondamentale e l’impianto generale.

È bene chiarire che, a parte le differenze dovute al mutamento del quadro normativo nel tempo e le diverse modalità di trasmissione, concettualmente DIA e SCIA sono la stessa cosa (come ho detto, l’una è l’evoluzione dell’altra), quindi le riflessioni su cui mi dilungherò valgono sia per l’una che per l’altra.

La natura giuridica della DIA è stata controversa per lungo tempo, ma tradizionalmente la riflessione ermeneutica ha preso le mosse dall’avvicinamento della DIA in termini concettuali al provvedimento amministrativo formato tramite silenzio assenso ed è stata segnata dal tentativo di ravvisare nell’istituto, visto come fattispecie a formazione progressiva, in modo diretto o indiretto, una natura provvedimentale.

Il dibattito in dottrina e giurisprudenza si è protratto per lunghi anni aggrumandosi grossomodo su due direttrici.

Parte della dottrina e parte della giurisprudenza ritenevano che all’interno del procedimento di DIA si potesse ravvisare la formazione semplificata di un assenso provvedimentale mediante silenzio[1]. In pratica, secondo questo paradigma, la DIA (o la SCIA) costituirebbe l’istanza a seguito della quale, in caso di mancato esercizio dei poteri inibitori da parte dell’Ufficio, si formerebbe, per effetto del silenzio, un provvedimento implicito oggettivamente e soggettivamente amministrativo[2].

Secondo un altro orientamento, invece, la formazione di uno specifico autonomo provvedimento a seguito del deposito della DIA per effetto del silenzio sarebbe da escludere, poiché sarebbe invece la stessa DIA a trasformarsi, da atto privato, in titolo abilitativo[3]. In questo caso il titolo non proverrebbe più dalla pubblica amministrazione, ma trarrebbe origine direttamente dalla legge per effetto del concorrere di tre elementi: il deposito dell’istanza (completa della documentazione necessaria), il decorso del termine fissato dalla legge per l’esercizio dei poteri inibitori e il silenzio dell’amministrazione.

La disciplina della DIA introdurrebbe dunque un atto di auto-amministrazione integrante esercizio privato di pubbliche funzioni (concetto reso con la perifrasi “DIA vestita in forma amministrativa”).

È a dire che l’art. 19 L. 241/1990, almeno fino alle modifiche introdotte dalla L. 124/2015, non si poneva in contrasto con una visione di questo tipo, tutt’altro[4].

Se questo è il quadro tradizionale, bisogna prendere atto che entrambe queste visioni sono state respinte dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che, chiamata a risolvere i contrasti ingeneratisi proprio in merito alla natura giuridica della DIA, con la sentenza n. 15 del 29 luglio 2011, a un anno dalla conversione in legge del D.L. 78/2010 istitutivo della SCIA, ha affermato che questa (o meglio, per la precisione la DIA) costituisce in realtà un mero atto privato, semplicemente volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività ammessa a priori direttamente dalla legge e nell’ambito del procedimento instaurato con il suo deposito non si ha mai formazione di un provvedimento amministrativo autorizzativo.

Questa impostazione, che all’inizio ha infranto un tabù, si è rivelata in linea con i successivi sviluppi normativi dell’istituto.

Un paio di settimane dopo la pubblicazione della sentenza, il D.L. n. 138/2011 ha introdotto il comma 6 ter in fine all’articolo 19 della L. 241/1990, introducendo in modo esplicito con esso il principio secondo cui “[1] la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti liberamente impugnabili. [2] Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire l’azione di cui all’art. 31 commi 1, 2 e 3 del D.Lgs 2 luglio 2010, n. 104 (vulgo le azioni contro il silenzio previste dal codice del processo amministrativo NdR)”.

In sede di conversione del decreto (avvenuta con la L. n. 148/2011) le parole “si riferiscono ad attività liberalizzate” sono fortunatamente scomparse[5] e si è specificato che, in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esercizio dei poteri inibitori e conformativi, sono esperibili dagli interessati esclusivamente le azioni previste dal C.p.a. contro il silenzio, con esclusione (a questo punto coerentemente) di tutte le altre, in primis quella di annullamento.

In tal senso si muovono anche la riforma Madìa e i decreti (SCIA 1 e 2) che ne sono scaturiti.

In questo contesto, riguardo alla mutata prospettiva circa la natura giuridica della SCIA il Consiglio di Stato si è espresso in sede consultiva in occasione dell’attuazione della riforma Madìa, con il parere n. 839/2016[6], reso funzionalmente all’approvazione dello schema di “decreto SCIA” di cui al D.lgs. 30 giugno 2016, n. 126 (c.d. decreto SCIA 1).

Il parere richiamato conferma il nuovo paradigma e configura la SCIA come “…‘istituto non provvedimentale’, che si inserisce in un quadro informato ai princìpi di liberalizzazione e di semplificazione, nonché ai princìpi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento legittimo…” la cui principale caratteristica “…risiede … nella sostituzione dei tradizionali modelli provvedimentali autorizzatori ‘a regime vincolato’ con un nuovo schema, ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, consentite ‘direttamente dalla legge’ in presenza dei presupposti normativamente stabiliti.

L’attività dichiarata può, quindi, essere intrapresa senza il bisogno di un consenso ‘a monte’ dell’amministrazione, poiché esso è surrogato dall’assunzione di auto-responsabilità del privato, insita nella segnalazione certificata, costituente, a sua volta, atto soggettivamente ed oggettivamente privato.

In questo assetto legislativo – che appare del tutto coerente anche con l’evoluzione del diritto europeo, culminata con la direttiva servizi del 2006 – non c’è spazio, sul piano concettuale e strutturale, per alcun potere preventivo di tipo ampliativo (autorizzatorio, concessorio e, in senso lato, di assenso), che sarebbe stato comunque un potere non discrezionale, ma vincolato all’accertamento dei requisiti di legge. Tale potere viene sostituito da un potere successivo, anch’esso non discrezionale ma vincolato alla mera verifica della sussistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività denunciata (rectius, segnalata), con connessa previsione di strumenti inibitori e repressivi in caso di esito negativo.

Il dichiarante è, quindi, titolare di una situazione soggettiva originaria, che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per l’esercizio dell’attività e purché la mancanza di tali presupposti non venga stigmatizzata dall’amministrazione con il potere inibitorio, repressivo o conformativo, da esercitare comunque nei termini di legge…[7].

Se il concetto non fosse stato espresso con sufficiente chiarezza, il Consiglio di Stato prosegue affermando che “… a seguito della riforma del 2015 deve, quindi, considerarsi ormai definitivamente consolidata la ricostruzione più recente, che riconduce inequivocabilmente la SCIA all’ambito delle ‘attività libere’, anche se ‘conformate’ dalle leggi amministrative, sottoposte (soltanto) alla successiva verifica della sussistenza dei requisiti di tale conformazione da parte delle autorità pubbliche…[8].

Il problema dell’annullamento in autotutela: la SCIA non è tecnicamente un atto annullabile

A meno di non voler continuare a sostenere ad oltranza gli orientamenti interpretativi provvedimentalistici del passato – oggi, si è visto, palesemente anacronistici e contrastanti, in modo abbastanza evidente, con il dato normativo – dobbiamo prendere atto, alla luce di quanto ho tentato di illustrare fin qui, che né la SCIA, né il silenzio dell’amministrazione che eventualmente la segua hanno alcun valore di provvedimento amministrativo.

Questo ci porta allora alla risposta al primo dei quesiti che ci siamo posti (se la SCIA sia o meno annullabile), che risulta praticamente scontata, considerato il fatto che il potere di annullamento in sede di autotutela, a mente degli articoli 21 octies[9] e 21 nonies[10] della L. 241/1990, può propriamente essere esercitato solo avverso provvedimenti soggettivamente ed oggettivamente amministrativi e non contro atti soggettivamente ed oggettivamente privati, come invece sono definite oggi le SCIA (e simmetricamente le DIA) usando le parole del Consiglio di Stato.

Chiarito che di annullamento non si può neppure parlare, e che quando lo facciamo lo facciamo impropriamente[11], bisogna però fare attenzione al ruolo che riveste l’amministrazione all’interno del procedimento per SCIA, ai poteri che deve esercitarvi e alla possibilità di farlo anche tardivamente.

Sappiamo che, secondo il comma 3 dell’art. 19 L. 241/1990[12], l’amministrazione è titolare di un potere di controllo nel merito della SCIA presentata e, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale per l’attività oggetto di SCIA, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione (in generale, trenta nel caso di SCIA edilizia NdR) è tenuta ad adottare provvedimenti (motivati) di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti dannosi (c.d. poteri inibitori) oppure, nel caso in cui sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, di imporre al richiedente di compiere entro un termine quanto necessario a conformarsi, fornendogli, nell’eventualità, le opportune prescrizioni (c.d. poteri conformativi).

Laddove l’amministrazione non si muova nel termine, ai sensi del comma 4 dell’art. 19 citato, è stabilito che essa debba adottare comunque i provvedimenti inibitori o conformativi rituali, ma possa procedervi solo “in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies”, ovvero quelle stesse condizioni che legittimerebbero, se vi fosse un provvedimento amministrativo, il suo annullamento d’ufficio e segnatamente: (1) che sussistano ragioni di interesse pubblico (aggiungo, concrete ed attuali) ad adottare tardivamente i provvedimenti inibitori o confermativi e (2) che l’adozione di tali provvedimenti intervenga entro uno spazio temporale ragionevole, non superiore a diciotto mesi.

Ecco dunque da dove nasce l’equivoco: l’articolo 19, per porre un limite al potere di controllo dell’amministrazione sulla SCIA richiama i presupposti per l’annullamento, e per questo il suo significato viene frainteso, ma a una lettura attenta appare chiaramente come lo stesso articolo di annullamento (e non a caso) non parli mai.

L’esercizio tardivo dei poteri inibitori e conformativi e il termine di diciotto mesi

Come visto, la disciplina della SCIA non prevede l’annullamento in autotutela e, conseguentemente, nessun termine ragionevole per provvedervi.

Quello che invece questa disciplina prevede è l’esercizio funzioni di vigilanza sull’attività del privato (oggetto di SCIA) da parte della pubblica amministrazione, che si esplicano nell’adozione (eventuale) di provvedimenti inibitori o conformativi.

Tale attività di vigilanza si dipana su due livelli temporali successivi: il primo entro il termine di 60 giorni dal deposito della SCIA, in cui il potere di vigilanza è pieno, e il secondo entro i successivi diciotto mesi, in cui il potere di vigilanza può essere esercitato se sostenuto dalla sussistenza di un interesse pubblico rilevante.

Scaduto il secondo termine cessa il potere di vigilanza della pubblica amministrazione competente sull’attività di cui alla SCIA.

Un termine di diciotto mesi, rispondendo al secondo dei quesiti che abbiamo posto all’inizio, è dunque previsto anche con riferimento alla SCIA, ma il suo decorso non inibisce l’esercizio di un (in realtà inesistente) potere di annullamento, ma l’esercizio delle funzioni di vigilanza dell’amministrazione sull’attività oggetto di SCIA.

Quanto alla decorrenza di tale termine, l’art. 2 comma 4 del D.Lgs n. 222/2016 (c.d. decreto SCIA 2) ha colmato un vuoto normativo inizialmente relitto, specificando che esso decorre dalla scadenza del termine ordinario (sessanta giorni secondo la disciplina generale, trenta per l’edilizia).

Riflessioni conclusive

Spero che alla fine di questo piccolo lavoro sia emerso chiaro come il regime della SCIA abbia ormai assunto una fisionomia matura e si sia, direi completamente, affrancato dalla condizione di vassallaggio rispetto al paradigma classico dell’agire amministrativo per provvedimenti.

Certo, non è facile abbandonare i vecchi abiti mentali, specie se li abbiamo vestiti a lungo, ma bisogna prendere atto che l’ordinamento sta andando in una direzione diversa rispetto a quella a cui siamo abituati.

Oggi la SCIA costituisce il regime largamente più utilizzato per gestire i rapporti tra amministrazione e attività private e, seppur non lo si possa ritenere sempre adeguato all’impresa, è necessario che tutti gli operatori ne acquisiscano le logiche e le particolarità e comincino a concepirlo come un sistema a se stante e non, come si è fatto fino ad oggi, come il cugino povero del procedimento di autorizzazione, su cui stabilire finte simmetrie.

Finché non entreremo in quest’ottica e finché distinzioni, logiche e particolarità come quelle che ho tentato di descrivere in queste righe non saranno percepite in modo automatico non avremo accesso ad una parte sostanziale delle funzionalità che, volenti o nolenti, la macchina amministrativa oggi ci mette a disposizione.

Cercare di guidare una macchina con il freno a mano tirato dà poche soddisfazioni e generalmente provoca disastri.


Note

  1. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2016, p. 530.
  2. In questo senso, tra le tante, Cons. St. n. 2558/2010, Cons. St. n. 3263/2010 e Cons. St. n. 1423/2010; per una critica vedasi Cons. St. Ad. Plen. n. 15/2011, ¶ 5.2.
  3. Per la disamina di questo orientamento vedasi l’excursus tracciato da Cons. St. Ad. Plen. n. 15/2011, ¶ 5.3.
  4. L’art. 19 comma 3 L. 241/1990, nella formulazione assunta a seguito della novella introdotta tramite il D.L. n. 35/2005 conv. nella L. n. 80/2005, rimasta invariata fino alla riforma del 2015, prevedeva infatti che, in caso di mancata adozione nei termini dei provvedimenti inibitori di rito fosse fatto “… comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies…” richiamando dunque l’intera disciplina sia della revoca che dell’annullamento in autotutela, entrambe strutturate per incidere, se non su un atto dell’amministrazione, quantomeno su di un titolo che comunque assumesse carattere amministrativo.
  5. Perché dicevano più di quel che era coerente dire e la loro esistenza generava più questioni di quante ne risolvesse. Sarebbe interessante immaginare, ad esempio, cosa avrebbe potuto essere del nascituro regime della CILA se queste parole non fossero state cancellate.
  6. Consiglio di Stato Parere n. 839/2016 sul sito Giustizia Amministrativa, fruibile da https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/ucm?id=xmibpmb6zqwjojx74igrlkvsyu, link verificato il 27.11.2019.
  7. Cfr. Consiglio di Stato, Parere n. 839/2016 cit. ¶ 3.1.
  8. Cfr. Consiglio di Stato, Parere n. 839/2016 cit. ¶ 3.2.
  9. L. 241/1990, art. 21 octies “Annullabilità del provvedimento – 1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Testo vigente al 27.11.2019.
  10. L. 241/1990, art. 21 nonies “Annullamento d’ufficio – 1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. 2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. 2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”. Testo vigente al 27.11.2019.
  11. Anche se spesso e spesso in “sede ufficiale”, come ad esempio in TAR Lazio n. 4728/2018.
  12. L. 241/1990, art. 19 “Segnalazione certificata di inizio attività – Scia – 1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria. La segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, nonché , ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle imprese di cui all’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti. La segnalazione, corredata delle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonché dei relativi elaborati tecnici, può essere presentata mediante posta raccomandata con avviso di ricevimento, ad eccezione dei procedimenti per cui è previsto l’utilizzo esclusivo della modalità telematica; in tal caso la segnalazione si considera presentata al momento della ricezione da parte dell’amministrazione. 2. L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata, anche nei casi di cui all’articolo 19-bis, comma 2, dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente. 3. L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa. L’atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata. 4. Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies. 4-bis. Il presente articolo non si applica alle attività economiche a prevalente carattere finanziario, ivi comprese quelle regolate dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e dal testo unico in materia di intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 5. (omissis). 6. Ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni. 6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380, e dalle leggi regionali.(19) 6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
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