Si chiude un capitolo, ma con la EPBD alle porte siamo sicuri che la stagione degli incentivi sia davvero finita?

Alla fine ci siamo arrivati.

Il 16 febbraio è stato pubblicato in gazzetta ufficiale il DL 11/2023.

Da anni e anni, ogni volta che accediamo alla GU o a qualche bollettino regionale, ci troviamo alle prese con norme dal contenuto esoterico, il cui significato non è mai completamente conoscibile e la cui decifrazione – appannaggio esclusivo dei migliori iniziati e rigorosamente fuori dalla portata dell’uomo comune – richiede sempre grande impegno e ricerca.

Questo fino al 16 febbraio.

Il 16 febbraio abbiamo scoperto che anche un decreto legge può essere scritto in italiano comprensibile a tutti.

In tre articoli, con testo cristallino e senza ambiguità, il DL 11 risolve il problema dei superbonus.

Le regole sono chiare:

  1. le amministrazioni territoriali, che su stampa e social, negli scorsi giorni, avevano ventilato l’idea di acquistare i crediti fiscali da superbonus, non potranno azzardarsi a farlo perché quella pratica viene loro categoricamente proibita;
  2. esclusi ovviamente i casi di dolo, il cessionario del credito fiscale che ha diligentemente verificato l’intervento e raccolto l’opportuna documentazione (che la norma specifica dettagliatamente) non dovrà temere responsabilità, contrariamente a quanto paventato da AdE fino a qualche giorno fa; inoltre, in caso d’inchiesta, l’onore della prova del dolo e della colpa grave incombe sull’amministrazione e non sul cittadino.
  3. non sono più ammessi sconti in fattura o cessioni di credito d’imposta da parte dei beneficiari dei bonus, tranne in alcune ipotesi tassativamente elencate, tra cui, per i superbonus, i casi in cui, all’entrata in vigore del decreto, sia già stata tempestivamente depositata la Cilas e, nel caso di lavori condominiali, vi sia la relativa delibera già tempestivamente perfezionata.

Che dire?

Più chiaro non si poteva.

Complimenti agli estensori del provvedimento.

Insomma, chi c’è c’è e chi non c’è si arrangia: se vuole fare i lavori dovrà pagarli di tasca propria e richiedere la compensazione del credito d’imposta al momento di pagare le tasse.

Se sarà capiente.

Inutile dilungarsi in banalità: senza lo sconto in fattura e la cessione del credito non saranno in molti a mettere le mani sui propri immobili con interventi massivi come quelli che abbiamo visto spesso programmare (e meno spesso realizzare) negli scorsi mesi.

D’altra parte, l’illusione del “ristrutturiamo casa gratis” dove ci ha portato?

Abbiamo pochi lavori effettivamente realizzati, moltissimi lasciati a metà.

Le imprese – salvo qualche eccezione – hanno incamerato crediti fiscali trattandoli come se fossero denaro, quando non lo sono, ed oggi si ritrovano patrimonializzate sulla carta, ma con la cassa vuota, in molti casi non pagano gli operai e neppure la previdenza e si ritrovano senza durc.

Si è innescato un meccanismo speculativo che ha portato alla formazione di una bolla sui costi edili, tanto che un intervento per cui si sarebbe speso 100 nel 2019 oggi costa 600 se va bene, il che ha avuto conseguenze anche nel settore degli appalti pubblici in cui sono letteralmente saltate le clausole di revisione dei prezzi.

Anziché dare una spinta all’economia e alla ripresa si è drogato un mercato e si è alimentata l’inflazione.

Intendiamoci, non ci sono solo ombre: alcuni settori hanno effettivamente registrato maggiori introiti e questo ha alimentato comunque la circolazione di ricchezza.

Ma quanta di questa ricchezza sia effettivamente stata redistribuita nel nostro Paese è difficile dire, considerato che le filiere finanziarie e quelle delle materie prime e dei semilavorati, che hanno effettivamente profittato degli incassi maggiori, passano in gran parte per l’estero.

Insomma, il bilancio non è positivo e alla fine la spina è stata staccata.

I superbonus sono misure monche, frutto di superficialità e lo sono fin dall’inizio e le innumerevoli – e francamente insopportabili – modifiche di disciplina intervenute “in corso d’opera” non hanno fatto altro che peggiorare la situazione.

L’unica parola che può descrivere un modo di operare del genere è “faciloneria”. E la faciloneria, si sa, è come l’ignoranza: pare all’inizio che ti faccia guadagnare, ma alla fine ti costa cara.

Neppure l’obiettivo è stato mai chiaro e questo già rivela da sé la serietà con cui si è lavorato nella pianificazione strategica delle misure: si trattava di incentivi per stimolare l’economia oppure di misure per rendere più efficiente il patrimonio edilizio?

All’inizio si parlava di far ripartire l’economia dal mattone, come se fossimo rimasti agli anni 1960, poi, quando abbiamo dovuto redigere il PNRR, abbiamo virato sull’efficientamento, principalmente energetico, seguendo la moda del green da salotto.

Quanto al green, quello vero, in materia immobiliare, è un altro paio di maniche: l’esigenza è concreta ed oggi è la direttiva Epbd – Energy performance building directive ormai in dirittura di arrivo – che imporrà alla Nazione di fare delle scelte, sia di carattere tecnico – non è coprendo i muri di polimeri che si rende un fabbricato green o che si risolve il problema della sostenibilità in edilizia – sia finanziario e normativo.

Considerato che un piano di recupero del patrimonio edilizio italiano nel senso indicato dall’Europa – che, al netto delle leggende metropolitane, chiede semplicemente di far vivere le famiglie in case adeguate alla nostra epoca – non è ragionevolmente pensabile senza prevedere un sistema di incentivazione pubblica, forse non è del tutto irragionevole far tabula rasa di un sistema assurdo che si è distinto solo per disfunzioni, in modo da avere il terreno libero per pianificare un nuovo modello in cui si tenga ferma la rotta sull’obiettivo e si prevedano mezzi che permettano davvero di raggiungerlo, indirizzando le risorse con razionalità dove davvero servono.

Insomma, salvo pasticci in sede di conversione del decreto, abbiamo eliminato i bonus oggi, ma probabilmente ne risentiremo parlare domani, speriamo in forma diversa e questa volta intelligente.

Il re è morto, evviva il re!

Non tutto quello che viene pubblicizzato è sempre realizzabile

Da un po’ di tempo è esploso anche nel nostro paese il fenomeno del Padel. Per quei pochi che ancora non lo sapessero, si tratta di uno sport derivato dal tennis, giocato con racchette più piccole e rigide, su campi più piccoli con sostrato sintetico e delimitati (normalmente) da vetrate.

L’estate è finita e i vari gestori si stanno ovviamente organizzando per poter continuare l’attività anche d’inverno, cercando sostanzialmente soluzioni per coprire il campo.

Il mercato si è subito messo in moto, con le soluzioni più disparate, normalmente assemblabili. Contemporaneamente si è mossa anche la macchina del marketing, che assicura per la tale o la tal altra soluzione, semplicità di montaggio e semplificazione burocratica in quanto l’installazione della copertura prescelta rientrerebbe nel mare magnum dell’edilizia libera.

Ovviamente non tutti i rivenditori sono uguali, quindi non tutti azzardano a tanto e neppure le strutture che il mercato propone sono tra loro identiche.

Ad ogni modo, una domanda è d’obbligo: siamo proprio sicuri che questo tipo di manufatti sia classificabile in edilizia libera?

Da parte mia voglio provare a fare qualche riflessione generale.

Un campo da Padel regolamentare misura 20 metri in lunghezza x 10 in larghezza, con un minimo margine di tolleranza. Si tratta dunque di coprire un’area di 200 mq solo per il campo, oltre l’ulteriore spazio per passaggi, accessi, ecc.

Per consentire agevolmente il gioco la struttura dovrà inoltre garantire una certa altezza: di solito sui sette metri (consideriamo che solo le pareti del campo misurano 3 metri di altezza).

Per coprire il campo dunque abbiamo bisogno di una struttura di 200 mq d’area, alta 7 metri.

Trattandosi di un ingombro paragonabile a quello di una bifamiliare, diciamo che non possiamo considerare la struttura manufatto di piccole dimensioni.

Non a caso le strutture in vendita (ovviamente mi soffermo su quelle di qualità) prevedono forme di ancoraggio al suolo adeguate al volume, secondo le forme più svariate e smart, ma comunque stabili ed hanno caratteristiche progettuali che garantiscono durevolezza e resistenza in sicurezza agli eventi atmosferici.

Sul punto esibiscono anche una serie di certificazioni.

Concettualmente si tratta di strutture molto simili (per concetto) a quelle progettate per i campi da tennis, in cui si ha una copertura di tenda spessa impermeabile tendenzialmente fissa e tendaggi (sempre impermeabili tipo vela) laterali apribili.

Esaminando la normativa, la tesi di chi ritiene che l’opera rientri in edilizia libera fa perno sull’art. 6 co. 1 lett. e-bis) DPR 380/2001, che ammette, appunto in edilizia libera, “le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale”, letto in combinazione con il lemma 56 del glossario unico sulle opere di edilizia libera ai sensi dell’ art. 1, comma 2 del decreto legislativo 25 novembre 2016, n.222, che ammette nella categoria le tensostrutture e le pressostrutture.

Tutto a posto quindi?

Non proprio.

Innanzitutto bisogna fare i conti con il concetto di “temporaneità”, che trae in inganno. Sul punto infatti la giurisprudenza amministrativa (CdS 2824/2014 e TAR Toscana 696/2018) afferma che ” non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo” qual è quella, seppur ciclica in ragion della stagione, legata all’esercizio in pianta stabile di un centro sportivo.

Inoltre c’è da fare i conti con la normativa regionale via via applicabile.

Ad esempio in Toscana il conflitto si fa palese con l’art. 137, co.1 lett. b), n. 1  della LR 65/2014 che inserisce in edilizia libera:” le installazioni stagionali, destinate ad essere integralmente rimosse entro un termine non superiore a novanta giorni consecutivi, poste a corredo di attività economiche quali esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi facilmente amovibili e reversibili quali pedane, paratie laterali frangivento, manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di copertura, e prive di parti in muratura o di strutture stabilmente ancorate al suolo. Sono da ritenersi prive di rilevanza urbanistico edilizia le installazioni comunque prive di tamponamenti esterni continui e di coperture realizzate con materiali rigidi e durevoli”.

La legislazione toscana, come si vede, pone molto l’accento sulla leggerezza  e la precarietà dell’opera ai fini della sua ammissione in edilizia libera (nel gergo toscano, per essere precisi, si tratterebbe dell’ambito di “irrilevanza edilizia”), il che rende dubitabile che installazioni come quelle in parola possano essere ritenute abbastanza leggere e precarie per rientrarvi.

Porto l’esempio della Toscana per mostrare come si complica la questione scendendo dall’ambito nazionale a quello locale, ma vuole essere solo un esempio: in ogni regione esistono norme che incidono nei modi più disparati sul punto, con regole, che, quindi, a livello locale in certa misura cambiano.

Altro paletto: l’art. 6 del DPR 380/2001 ammette che gli interventi che elenca siano realizzabili in edilizia libera a condizione che siano – cito testualmente l’incipit dell’articolo – “fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

La situazione non è quindi così semplice e questo spiega come mai pronunce recenti su casi analoghi, come ad esempio TAR Toscana n. 93/2018, che tratta di una tensostruttura per il tennis, alla fine si muovano ammettendo l’opera all’interno del perimetro delle strutture fisse eventualmente apribili a servizio delle attività sportive, richiamando il disposto dell’art. art. 3 co. 1 lett. e) DPR 380/2001, e qualificandola come “installazione di manufatti anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere … che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee“, tutt’altro che libera e soggetta a permesso per costruire.

Tirando le fila di questo discorso, il fatto che la copertura per il vostro campo da Padel possa essere installata senza nessuna autorizzazione o formalità, come qualcuno reclamizza, non può essere preso come oro colato ed espressione di un principio generale e sempre valevole, ma deve essere visto come una possibilità astratta dipendente da un gran numero di variabili, da valutare attentamente con il vostro geometra, architetto ed ingegnere (e magari il loro consulente legale in materia), accettando l’eventualità che invece, nel vostro caso, siano necessarie diverse pratiche amministrative.

Il tutto, magari, prima di concludere l’acquisto.

Le installazioni preesistenti potrebbero beneficiare del regime liberalizzato, tenendo distinti profili penali e amministrativi

Parte Prima – Carlo Pagliai

Il D.L. n. 115/2022 “Aiuti Bis” è noto per aver tentare di rendere più fluida la cessione del credito nei bonus edilizi, e tra le sue pieghe si annida una notevole modifica al Testo Unico Edilizia DPR 380/01; per essere precisi, la terza modifica al TUE consecutiva in un solo anno per “fluidificare” anche le ristrutturazioni pesanti e ricostruttive di edifici sottoposti a vincoli paesaggistico. Il D.L. n. 115/2022 è stato ufficialmente convertito in legge con modificazioni al Senato in data 20 settembre scorso, e nel momento in cui si scrive è in pubblicazione in G.U. (L. 21 settembre 2022, n. 142).

Ma l’ultima modifica apportata al DPR 380/01 nell’anno 2022 (e ancora non è finito) è passata come emendamento molto silenzioso, e riguarda la liberalizzazione delle cosiddette vetrate panoramiche amovibili (VEPA).

Il Decreto Aiuti Bis ha inserito l’installazione delle VEPA nell’ambito di edilizia libera, aggiungendo nel TUE questa nuova categoria di intervento nell’art. 6 comma 1, al punto b-bis:

Art. 33-quater. – (Norme di semplificazione in materia di installazione di vetrate panoramiche amovibili) – 1. All’articolo 6, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, dopo la lettera b) è inserita la seguente: “b-bis) gli interventi di realizzazione e installazione di vetrate panoramiche amovibili e totalmente trasparenti, cosiddette VEPA, dirette ad assolvere a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche, riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche dei balconi aggettanti dal corpo dell’edificio o di logge rientranti all’interno dell’edificio, purché tali elementi non configurino spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di superfici, come definiti dal regolamento edilizio-tipo, che possano generare nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile anche da superficie accessoria a superficie utile. Tali strutture devono favorire una naturale microaerazione che consenta la circolazione di un costante flusso di arieggiamento a garanzia della salubrità dei vani interni domestici ed avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee architettoniche”.

Questa nuova modalità di intervento liberalizzata, e pertanto sottratta espressamente dai titoli edilizi, non va intesa come un’opportunità di realizzare verande o considerare “sanate” quelle compiute su balconi, portati, logge o in ampliamento a edifici esistenti.

Infatti si parla di VEPA, vetrate panoramiche amovibili, cioè di tipo trasparente e facilmente rimovibili (sulla questione di amovibilità ci sono diversi profili ancora da discutere).
Il primo pensiero va a quelle vetrate scorrevoli su binari, sganciabili o retrattili a soffietto, assai pubblicizzate anche in passato perché presuntivamente considerate già allora in edilizia libera.
La giurisprudenza amministrativa invece ha più volte qualificato interventi simili come ampliamenti e pertanto assoggettabili a permesso di costruire, in quanto finalizzati a chiudere spazi esistenti come balconi tramite vetrate trasparenti scorrevoli su guide metalliche, anche qualora mantenenti fughe di ricambio d’aria permanenti (Cons. di Stato n. 469/2022).

La novità introdotta dal DL Aiuti Bis a quanto pare invece prevede la possibilità di considerare in edilizia libera le VEPA, qualora realizzate sulla base di tante (capziose) condizioni tecniche.

Sulla questione “amovibilità” ci sono ancora diversi profili da discutere

Sull’analisi delle predette condizioni si rinvia a quanto già esposto in apposito approfondimento sul mio blog, in via riduttiva possiamo dire che sono fattibili soltanto su balcone e logge rientranti all’interno di edifici (cfr norma), non sono pertanto realizzabili su gazebi, pergole, lastrico solare, giardino, porticato o altrove.

Inoltre non dovranno configurare spazio chiuso, da giustificare anche una potenziale permanenza umana e configurare quindi nuova volumetria o superficie utile, e passaggio da superficie accessoria a utile (vedi R.E.T. nazionale e regionali).

Infine, per anticipare dubbi e interpretazioni, nella norma è stato espressamente prevista la naturale microaerazione per consentire costante flusso d’aria, portando ad escludere impianti VMC e climatizzazione.

Fatta questa premessa volutamente sintetica, ci sono due aspetti importanti da sottolineare:

  • Presente: VEPA in edilizia libera, ma quanto libera davvero?
  • Passato: sono “sanate” automaticamente quelle realizzate e accertate prima del DL 115/2022?

Presente.
L’inserimento in edilizia libera delle VEPA comporta l’applicazione degli stessi criteri e premesse normative valevoli generalmente per qualsiasi intervento edilizio, cioè facendo salvo quanto diversamente previsto da altre normative e strumenti di settore:

  • Previsioni del Piano Regolatore comunale, strumenti urbanistici e regolamenti edilizi
  • Antisismica
  • Vincolistica in generale
  • Paesaggistica
  • Ecc

A questo ambito bisogna aggiungerne un altro non trascurabile e civilistico: il decoro architettonico negli edifici plurifamiliari, criterio discrezionale e foriero di contenziosi.

Passato.

Indubbiamente negli scorsi anni sono state installate le VEPA su varie tipologie del patrimonio immobiliare, spinte anche dalla credenza diffusa che fossero già in edilizia libera. Tale qualifica diventerà ufficiale al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 115/2022 “Aiuti Bis”.

Per quelle VEPA realizzate in passato bisogna porsi due profili:

  • si possono considerare automaticamente “sanate” da un punto di vista penale e amministrativo, con una sorta di “condono retroattivo”?
  • per quelle già accertate e contestate con procedimento sanzionatorio, penale e amministrativo che sia, possono accedere al più mite regime novellato?

Come ne usciamo?

Parte seconda – Fabio Squassoni

E qui le cose si complicano.

Per ora siamo alla prima lettura della norma, quindi dovremo poi attendere conferme e smentite dalla giurisprudenza, con la giusta seraficità, sia nel caso in cui dovessimo  trovar riscontri, che in quello in cui fossimo costretti doverci ricredere.

Innanzitutto non si può parlare di retroattività della norma: la norma è pensata per l’avvenire e per gli interventi da realizzare, non per i milioni di terrazzi, terrazzini, verande, loggette infissati che costeggiano i nostri paesaggi urbani.

Per gli interventi già realizzati può realizzarsi un fenomeno di legittimazione di fatto ex post – quando parliamo di condono retroattivo ovviamente sfoghiamo la nostra passione per l’iperbole – questo è vero, ma a certe condizioni.

Proviamo a capire.

La norma cosa fa: disegna una particolare categoria di intervento (l’installazione delle VEPA con le caratteristiche indicate dalla norma) – che sottrae alla sussunzione sotto altre categorie già esistenti e più generali – e le assegna un particolare regime giuridico, quello di intervento non titolato.

Così facendo, per gli interventi di questo tipo già eseguiti il legislatore neutralizza l’operatività di due istituti: quello della sanatoria e quello della repressione dell’abuso edilizio.

Riguardo la repressione degli abusi, con il passaggio di questo tipo di opere in edilizia libera, non sussiste più un interesse pubblico ad accertare e reprimere questi  comportamenti che, pur già posti in essere, al momento dell’accertamento non costituiscono più illecito.

Riguardo la sanatoria, se riflettiamo bene realizziamo che essa ha la funzione (amministrativa) di procurare un titolo ad interventi che non lo hanno, ma che, in base all’ordinamento, dovrebbero averlo per poter esser considerati leciti.

Con il passaggio in edilizia libera viene meno la necessità di procurare un titolo all’intervento di installazione di VEPA e quindi viene meno l’utilità dell’istituto della sanatoria.

Sorta di condono retroattivo quindi? Non tecnicamente, più una legittimazione pasticciata come effetto collaterale – il livello è quello dell’antistaminico usato come sonnifero: l’uso è improprio ma funziona.

Fondamentale la piena corrispondenza con il modello legale: se manca o cambia una virgola si ricade nell’aumento volumetrico e quindi nell’abuso primario

Il punto critico però è costituito, da una parte, dal problema della conformità dell’intervento già realizzato a quello descritto nella nuova lettera b-bis dell’art. 6 DPR 380/2001 e dall’altra parte dall’operatività della normativa collaterale.

Il problema della normativa collaterale è stato già descritto da Carlo sopra per le nuove realizzazioni e non vi torno sopra in quanto si ripropone nei medesimi termini anche per le esistenti.

Riguardo la compliance con la norma c’è da sottolineare bene che le strutture già esistenti che si pretende considerar regolarizzate devono essere perfettamente conformi con l’archetipo disegnato dalla nuova norma: se manca o cambia una virgola si ricade nell’aumento volumetrico e quindi nell’abuso primario.

Altro punto critico: gli illeciti già accertati in sede amministrativa e penale.

Fortunatamente in diritto penale vige il principio del favor rei, pertanto la normativa più favorevole per il reo si applica anche ai reati già compiuti. Qui si parla a pieno titolo di retroattività, non per volontà del decreto aiuti, ma per volontà di chi scrisse il codice penale. E quindi diciamo che siamo salvi, sempre se si tratta di VEPA corrispondente a quella di cui parla anche il decreto aiuti (come detto sopra, senza virgole aggiunte).

Per quanto riguarda i procedimenti sanzionatori amministrativi, invece, difficilmente potranno interrompersi, dato che la materia è regolata da principi e persegue scopi molto diversi dal penale.

In parole povere, un’ordinanza di riduzione in pristino già emessa, magari da tempo, per la loggetta chiusa, difficilmente potrà essere contestata invocando la nuova norma, ma dovrà comunque essere eseguita.

La dichiarazione di inefficacia della CILA edilizia

Atto utile, ma equivoco

Introduzione

Da tempo, in seno agli uffici edilizia privata dei comuni, è invalso l’uso di notificare al cittadino che abbia inoltrato una CILA1 di dubbia regolarità un atto denominato generalmente “dichiarazione di inefficacia”, con cui, appunto, si dichiara inefficace il documento ricevuto e si preannuncia l’esercizio di poteri repressivi, spesso non meglio identificati. A volte l’amministrazione si spinge anche ad indicare nel “provvedimento” la base giuridica di adozione, citando, a volte l’art. 7 L. 241/1990 (rubricato “Comunicazione di avvio del procedimento”), ma più spesso l’art. 10 bis del medesimo testo (rubricato questo invece “Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”).

Da giurista cultore della materia, di fronte al formarsi di queste prassi, non posso nascondere una certa perplessità.

A parte la base giuridica invocata (su cui verremo dopo), al dilà della denominazione che l’estensore ha scelto di dare allo specifico provvedimento, è giuridicamente corretto, alla luce dell’attuale meccanica normativa, parlare di inefficacia riguardo al deposito di una CILA?

E se non lo è, l’atto che l’amministrazione pretende di notificarci quando riscontra che una CILA per qualche motivo non va bene, allora, amministrativamente parlando, che cos’è?

Con questo scritto voglio puntare alcune riflessioni, anche alla luce del panorama giurisprudenziale in cui si tende a glissare il problema (e a salvare l’atto dell’amministrazione, che, ad essere onesti, qualche utilità pratica, comunque, ce l’ha).

Efficacia

Inizio le mie riflessioni dalla parola “efficacia”.

Secondo il Devoto Oli “efficacia” nel senso comune è “la capacità di produrre l’effetto e i risultati voluti o sperati”. Riportato all’ambito del diritto il concetto esprime “l’attitudine di un fatto, di un atto, o di un negozio giuridico a produrre gli effetti collegati al suo compimento”.

In ambito giuridico il concetto può essere altrimenti raffinato come “la capacità di un atto o fatto di avere i cosiddetti effetti giuridici, di modificare direttamente il ‘mondo giuridico’ (per es. un atto o fatto può far nascere o modificare o estinguere un’obbligazione)2.

Se si parla dunque di efficacia in rapporto alla CILA, acronimo di comunicazione di inizio lavori asseverata, dovrà concludersi che tale efficacia consiste nell’attitudine di questa a produrre gli effetti collegati al suo compimento.

Ma quali sono questi effetti?

CILA

La CILA, così come disegnata oggi dal nostro ordinamento, è una mera comunicazione con cui il privato dichiara all’amministrazione di iniziare dei lavori e ne descrive le qualità e l’entità.

Essa ha valore puramente informativo e serve, come espresso in modo cristallino dal Consiglio di Stato nel suo parere n. 1784/20163, a rendere edotta l’amministrazione dell’esistenza dell’attività, in modo che essa “possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”, mantenendo “sempre integro il potere di vigilanza contro gli abusi delineato in via generale all’art. 27 del DPR n. 380/2001”.

Se la CILA ha carattere puramente informativo e la sua efficacia consiste dunque nell’attitudine a portare a conoscenza dell’amministrazione l’esecuzione dei lavori, diventa particolarmente complicato disquisire su una sua eventuale inefficacia, almeno nei termini in cui sembrano intenderla le amministrazioni e, in una certa misura, i giudici amministrativi.

Inefficacia, inesistenza, invalidità o inutilità?

Se è vero quanto si è appuntato sopra, di vera e propria inefficacia della CILA dovrebbe parlarsi solo nei casi in cui essa sia incompleta (chiameremo questo caso Caso 1 NdR), non permetta cioè all’amministrazione di dedurre dalla comunicazione le caratteristiche dell’intervento e ritenersi messa in condizione di poter esercitare i poteri di vigilanza contro gli abusi di cui all’art. 27 TU Edilizia4.

E laddove l’incompletezza raggiunga livelli limite, tanto da non potersi individuare, dal tenore del piego comunicato, neppure le caratteristiche essenziali dell’intervento che si vuole eseguire, o dell’immobile su cui va eseguito, si potrebbe utilizzare la categoria dell’inesistenza, tanto cara alla giurisprudenza amministrativa d’antan (Caso 2).

Le declaratorie d’inefficacia o d’inesistenza, nel caso sopra visto, attengono al regime delle opere la cui esecuzione è effettivamente per legge soggetta a CILA e precedono logicamente l’avvio del procedimento per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie previste per l’esecuzione di lavori in assenza di essa ed hanno un senso in quanto possono, se tempestivamente adottate, prevenire l’inizio delle opere in violazione evitando al cittadino da una parte di incorrere in sanzione ed evitando all’amministrazione dall’altra, gli oneri relativi all’avvio di un procedimento sanzionatorio (ricordiamo che l’attività degli uffici deve informarsi al principio del buon andamento e non a quello di far cassa a tutti i costi, come invece più si va avanti più pare).

A ben vedere, di inefficacia si può parlare in tutti quei casi in cui la CILA è fatta male, ma non è usata a sproposito.

E quando la CILA invece sia completa e perfetta, ma sia usata a sproposito?

Si distinguono due ulteriori casi.

In un primo caso (Caso 3) l’intervento rientra nelle fattispecie di edilizia libera ai sensi dell’art. 6 DPR 380/2001. Qui l’attività edilizia è del tutto libera (con il Pagliai ci divertiamo a definirla edilizia libera – libera) e la CILA si presenta non inefficace, ma inutile.

Un’ultima ipotesi (Caso 4) prevede che la Cila venga utilizzata per comunicare lavori che avrebbero dovuto essere autorizzati da permesso per costruire oppure anticipati da SCIA. Anche qui, a rigore non si discute di efficacia o inefficacia – la CILA è perfettamente efficace secondo il criterio che abbiamo indicato sopra – ma di liceità o illiceità.

In altre parole l’atto comunicativo del privato è certamente idoneo a rendere edotta l’amministrazione di cosa si sta facendo e la mette sicuramente in condizione di esercitare i propri poteri di vigilanza, tuttavia l’intervento che si vuol porre in essere dovrebbe seguire un altro iter amministrativo che non è stato rispettato, quindi l’uso della CILA è illegittimo, mancando il quid pluris determinato dal diverso artefatto giuridico prescritto.

In questo caso è improprio utilizzare il termine “inefficacia”: sarebbe più appropriato invece riferirsi all’illiceità del comportamento.

Quindi, non contestazione d’inefficacia, ma di “uso illecito della CILA” in rapporto all’intervento prefigurato.

Le amministrazioni tendono invece a fare di tutta l’erba un fascio e denominano sempre “dichiarazione di inefficacia” questi provvedimenti, che invece, come abbiamo visto, hanno natura e logica diverse.

Le diverse basi giuridiche della “comunicazione di inefficacia” indicate dalle amministrazioni nei provvedimenti

Le ambiguità e i fraintesi rimangono anche rispetto alla base giuridica invocata dall’amministrazione per giustificare il “provvedimento”.

I richiami più gettonati sono quelli all’art. 10 bis della L. 241/1990, seguiti, quasi a pari merito da quelli che puntano all’art. 7 della medesima legge.

Ricostruito il quadro logico come sopra, emergono abbastanza chiare le difficoltà ad inquadrare la “comunicazione d’inefficacia della CILA” nell’ambito delle comunicazioni di cui all’art. 10 bis L. 241/1990, rubricato “comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”, che presuppone l’esistenza di un procedimento da avviarsi ad istanza di parte e l’esistenza di motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza proposta, chiaramente incompatibile con lo schema della CILA, in cui non vi è alcuna istanza da accogliere, ma una semplice comunicazione con cui il privato dichiara di voler iniziare lavori già ammessi e liberalizzati dalla legge.

Altra ipotesi gettonata è il richiamo dell’art. 7 L 241/1990 “Comunicazione di avvio di procedimento”.

Anche qui sono numerose le perplessità.

Quale sarebbe il procedimento da avviare? Quello sanzionatorio o repressivo?

Per far ordine, chiameremo “procedimento sanzionatorio” quello previsto per la mancata presentazione di CILA in occasione dell’esecuzione degli interventi ad essa soggetti prevista dall’art. 6 bis ultimo comma DPR 380/2001 e “procedimento repressivo” quello previsto per gli abusi edilizi dagli artt. 30 e ss. DPR 380/2001, nel caso in cui le opere eseguite a seguito della CILA sarebbero state soggette a Permesso per costruire o SCIA.

Innanzitutto devo rilevare che perché si possa parlare di avvio di procedimento sanzionatorio o repressivo si dovrà presupporre l’esistenza di un intervento da sanzionare o reprimere e tale presupposto viene meno ogniqualvolta alla CILA malamente trasmessa non sia seguita l’effettiva esecuzione dei lavori.

Ove i lavori siano invece iniziati, l’amministrazione avvia senz’altro le procedure pertinenti, che, se aventi carattere repressivo, secondo giurisprudenza costante, tra l’altro, non richiedono alcuna comunicazione di avvio del procedimento.

Atto superfluo?

Insomma, la “dichiarazione di inefficacia” della CILA (continuiamo a chiamarla così per semplicità, pur se, abbiamo visto, la dizione è largamente impropria) par proprio essere un atto in larga misura ridondante e il più delle volte utilizzato impropriamente.

Non convince, per le ragioni indicate sopra, neppure il TAR Lazio quando afferma (nella sentenza n. 11155/2019) che la dichiarazione d’inefficacia della CILA consiste in un “semplice rilievo” in vista della sospensione dei lavori e dell’adozione dei conseguenti provvedimenti repressivi nell’esercizio del potere di vigilanza contro gli abusi delineato in via generale dall’art. 27 DPR 380/2001.

Un conto è il semplice rilievo, la comunicazione senza formalità, un altro è l’emissione di un provvedimento con intento dichiarativo, da cui l’amministrazione pretende di far discendere l’esercizio del potere repressivo.

L’idea generale è che nell’ottica comune si tenda ad accostare la CILA alla SCIA e perciò si tenda ad applicare abiti mentali, peraltro non sempre corretti o aggiornati, tessuti sulle forme della seconda alla prima.

Vi è inoltre la tendenza, quasi feticistica e in parte incolpevole dell’amministrazione italiana, a “produrre” atti, maltollerando qualsiasi semplificazione e liberalizzazione, quasi ogni attività debba essere in qualche modo vagliata e autorizzata o proibita da un ufficio, con annesso pezzo di carta.

Aspetti pratici virtuosi…

Qualsiasi cosa si pensi della prassi della “dichiarazione di inefficacia della CILA”, essa ha il pregio – beninteso, se emanata nell’immediatezza del deposito della comunicazione e non mesi dopo o, come nel caso della citata sentenza del TAR Lazio, da Natale a Pasqua- ha il pregio, dicevo, eminentemente pratico, di sollevare tempestivamente le criticità dell’intervento che si vuol porre in essere e permettere di porvi rimedio, anche evitando l’inizio effettivo delle opere, il che sicuramente giova, sia all’amministrazione sia al cittadino.

… e viziosi

Sull’altro piatto della bilancia, deve considerarsi un aspetto negativo: la dichiarazione di inefficacia della CILA assomiglia troppo al provvedimento di blocco e conformativo che viene emesso nell’ambito della SCIA e porta a mio parere ad incrementare la confusione che esiste tra i due istituti.

Non a caso, addirittura molte difese, tra cui quella del ricorrente in Tar Lazio 11155/2019 che ho più volte richiamato, tendono a confondere il regime giuridico della CILA con quello della SCIA e a pretendere l’applicazione di istituti e rimedi validi certamente per la seconda, ma non per la prima.

Questa conseguenza può assumere connotati particolarmente pericolosi quando arrivi ad indurre a ritenere erroneamente operativi per la CILA i momenti di stabilizzazione che denotano la disciplina della SCIA, in particolar modo i termini per l’adozione dei provvedimento di verifica e i termini finali per il blocco tardivo (tante volte chiamato impropriamente “annullamento d’ufficio”).

O quando porti a considerare la CILA un “titolo abilitativo”, con tutte le garanzie legate a questa categoria.

È bene sottolineare che l’eventuale emanazione della “dichiarazione di inefficacia” da parte del Comune nulla toglie e nulla aggiunge all’intervento eseguito, che potrà essere verificato in ogni tempo e in ogni tempo sanzionato, senza che per esso decorra alcun “termine ragionevole”, non essendo l’autotutela neppure ipotizzabile.

Questo senza neppure prendere in considerazione il tema della conformità del costruito con il dichiarato, che abbiamo dato per scontata, e, in mancanza della quale, si apre un altro universo, che forse affronterò in un’altra occasione.

Note

1 Per i profani, si tratta della Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata di cui all’art. 6 bis DPR 380/2001.

2 AA.VV., La nuova Enciclopedia del diritto e dell’economia, Garzanti, Milano, 1987, lemma “efficacia”.

3 Cons. St., Sez. Spec. n. 1784 del 4 agosto 2016 “Schema di decreto legislativo in materia di individuazione dei procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio attività(SCIA), silenzio assenso e comunicazione di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’art. 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124”, §5.5.2, fruibile su https://www.reteambiente.it/normativa/26872/

4 Di seguito riportiamo il testo dell’art. 27 D.Lgs. 380/2001: “Vigilanza sull’attività urbanistico edilizia – 1. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente, la vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. 2. Il dirigente o il responsabile, quando accerti l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa. Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall’accertamento dell’illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell’articolo 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662. 3. Ferma rimanendo l’ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d’ufficio o su denuncia dei cittadini, l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, ordina l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell’ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere. 4. Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazione all’autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti.”


SCIA e autotutela

Il potere di annullamento che in realtà non esiste

Introduzione

Da quando è stata licenziata la riforma Madìa, accade con cadenza quasi regolare che qualcuno capiti in studio o mi fermi nella pausa di una conferenza per domandarmi “ma per l’annullamento in autotutela della SCIA vale il termine di 18 mesi?”.

A quel punto sono costretto a rispondere sempre con la stessa domanda “quale annullamento?” e ad imbarcarmi in un soliloquio in legalese che normalmente lascia il mio interlocutore peggio di come lo ha trovato.

Dato che la questione evidentemente interessa, l’equivoco è diffuso e che il termine “annullamento”, a pari merito con la parola “nullità”, è il più abusato della storia del diritto, credo sia giunto il momento di provare per iscritto a sfatare il mito.

Innanzitutto, per circoscrivere l’ambito di questo approfondimento, dalla la domanda che ho riportato all’inizio si devono in realtà estrapolare due quesiti: il primo consiste nel domandarsi se la SCIA possa essere annullata in autotutela dalla pubblica amministrazione depositaria e il secondo nel chiedersi se in materia di SCIA i poteri di intervento dell’amministrazione debbano esercitarsi, in via ordinaria e salvo l’incidente del falso (che è regolato da una disciplina peculiare), entro il limite temporale di diciotto mesi previsto dall’art. 21 nonies L. 241/1990.

La risposta a questi quesiti è quasi ovvia, a patto di aver preliminarmente ben chiara la natura giuridica della SCIA.

La natura giuridica della SCIA (e della DIA)

La SCIA, acronimo di Segnalazione Certificata di Inizio Attività, è stata introdotta nell’ordinamento tramite il D.L. 78/2010, conv. nella L. 122/2010 (a cui sono seguiti numerosi provvedimenti che hanno plasmato l’istituto conferendogli la fisionomia che ha oggi) e costituisce l’evoluzione della DIA (Dichiarazione o Denuncia di Inizio Attività), inserita a sua volta come istituto generale dalla L. 241/1990 e sviluppata con innumerevoli interventi sia a livello generale che settoriale, da cui eredita lo schema fondamentale e l’impianto generale.

È bene chiarire che, a parte le differenze dovute al mutamento del quadro normativo nel tempo e le diverse modalità di trasmissione, concettualmente DIA e SCIA sono la stessa cosa (come ho detto, l’una è l’evoluzione dell’altra), quindi le riflessioni su cui mi dilungherò valgono sia per l’una che per l’altra.

La natura giuridica della DIA è stata controversa per lungo tempo, ma tradizionalmente la riflessione ermeneutica ha preso le mosse dall’avvicinamento della DIA in termini concettuali al provvedimento amministrativo formato tramite silenzio assenso ed è stata segnata dal tentativo di ravvisare nell’istituto, visto come fattispecie a formazione progressiva, in modo diretto o indiretto, una natura provvedimentale.

Il dibattito in dottrina e giurisprudenza si è protratto per lunghi anni aggrumandosi grossomodo su due direttrici.

Parte della dottrina e parte della giurisprudenza ritenevano che all’interno del procedimento di DIA si potesse ravvisare la formazione semplificata di un assenso provvedimentale mediante silenzio[1]. In pratica, secondo questo paradigma, la DIA (o la SCIA) costituirebbe l’istanza a seguito della quale, in caso di mancato esercizio dei poteri inibitori da parte dell’Ufficio, si formerebbe, per effetto del silenzio, un provvedimento implicito oggettivamente e soggettivamente amministrativo[2].

Secondo un altro orientamento, invece, la formazione di uno specifico autonomo provvedimento a seguito del deposito della DIA per effetto del silenzio sarebbe da escludere, poiché sarebbe invece la stessa DIA a trasformarsi, da atto privato, in titolo abilitativo[3]. In questo caso il titolo non proverrebbe più dalla pubblica amministrazione, ma trarrebbe origine direttamente dalla legge per effetto del concorrere di tre elementi: il deposito dell’istanza (completa della documentazione necessaria), il decorso del termine fissato dalla legge per l’esercizio dei poteri inibitori e il silenzio dell’amministrazione.

La disciplina della DIA introdurrebbe dunque un atto di auto-amministrazione integrante esercizio privato di pubbliche funzioni (concetto reso con la perifrasi “DIA vestita in forma amministrativa”).

È a dire che l’art. 19 L. 241/1990, almeno fino alle modifiche introdotte dalla L. 124/2015, non si poneva in contrasto con una visione di questo tipo, tutt’altro[4].

Se questo è il quadro tradizionale, bisogna prendere atto che entrambe queste visioni sono state respinte dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che, chiamata a risolvere i contrasti ingeneratisi proprio in merito alla natura giuridica della DIA, con la sentenza n. 15 del 29 luglio 2011, a un anno dalla conversione in legge del D.L. 78/2010 istitutivo della SCIA, ha affermato che questa (o meglio, per la precisione la DIA) costituisce in realtà un mero atto privato, semplicemente volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività ammessa a priori direttamente dalla legge e nell’ambito del procedimento instaurato con il suo deposito non si ha mai formazione di un provvedimento amministrativo autorizzativo.

Questa impostazione, che all’inizio ha infranto un tabù, si è rivelata in linea con i successivi sviluppi normativi dell’istituto.

Un paio di settimane dopo la pubblicazione della sentenza, il D.L. n. 138/2011 ha introdotto il comma 6 ter in fine all’articolo 19 della L. 241/1990, introducendo in modo esplicito con esso il principio secondo cui “[1] la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti liberamente impugnabili. [2] Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire l’azione di cui all’art. 31 commi 1, 2 e 3 del D.Lgs 2 luglio 2010, n. 104 (vulgo le azioni contro il silenzio previste dal codice del processo amministrativo NdR)”.

In sede di conversione del decreto (avvenuta con la L. n. 148/2011) le parole “si riferiscono ad attività liberalizzate” sono fortunatamente scomparse[5] e si è specificato che, in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esercizio dei poteri inibitori e conformativi, sono esperibili dagli interessati esclusivamente le azioni previste dal C.p.a. contro il silenzio, con esclusione (a questo punto coerentemente) di tutte le altre, in primis quella di annullamento.

In tal senso si muovono anche la riforma Madìa e i decreti (SCIA 1 e 2) che ne sono scaturiti.

In questo contesto, riguardo alla mutata prospettiva circa la natura giuridica della SCIA il Consiglio di Stato si è espresso in sede consultiva in occasione dell’attuazione della riforma Madìa, con il parere n. 839/2016[6], reso funzionalmente all’approvazione dello schema di “decreto SCIA” di cui al D.lgs. 30 giugno 2016, n. 126 (c.d. decreto SCIA 1).

Il parere richiamato conferma il nuovo paradigma e configura la SCIA come “…‘istituto non provvedimentale’, che si inserisce in un quadro informato ai princìpi di liberalizzazione e di semplificazione, nonché ai princìpi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento legittimo…” la cui principale caratteristica “…risiede … nella sostituzione dei tradizionali modelli provvedimentali autorizzatori ‘a regime vincolato’ con un nuovo schema, ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, consentite ‘direttamente dalla legge’ in presenza dei presupposti normativamente stabiliti.

L’attività dichiarata può, quindi, essere intrapresa senza il bisogno di un consenso ‘a monte’ dell’amministrazione, poiché esso è surrogato dall’assunzione di auto-responsabilità del privato, insita nella segnalazione certificata, costituente, a sua volta, atto soggettivamente ed oggettivamente privato.

In questo assetto legislativo – che appare del tutto coerente anche con l’evoluzione del diritto europeo, culminata con la direttiva servizi del 2006 – non c’è spazio, sul piano concettuale e strutturale, per alcun potere preventivo di tipo ampliativo (autorizzatorio, concessorio e, in senso lato, di assenso), che sarebbe stato comunque un potere non discrezionale, ma vincolato all’accertamento dei requisiti di legge. Tale potere viene sostituito da un potere successivo, anch’esso non discrezionale ma vincolato alla mera verifica della sussistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività denunciata (rectius, segnalata), con connessa previsione di strumenti inibitori e repressivi in caso di esito negativo.

Il dichiarante è, quindi, titolare di una situazione soggettiva originaria, che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge, sempre che ricorrano i presupposti normativi per l’esercizio dell’attività e purché la mancanza di tali presupposti non venga stigmatizzata dall’amministrazione con il potere inibitorio, repressivo o conformativo, da esercitare comunque nei termini di legge…[7].

Se il concetto non fosse stato espresso con sufficiente chiarezza, il Consiglio di Stato prosegue affermando che “… a seguito della riforma del 2015 deve, quindi, considerarsi ormai definitivamente consolidata la ricostruzione più recente, che riconduce inequivocabilmente la SCIA all’ambito delle ‘attività libere’, anche se ‘conformate’ dalle leggi amministrative, sottoposte (soltanto) alla successiva verifica della sussistenza dei requisiti di tale conformazione da parte delle autorità pubbliche…[8].

Il problema dell’annullamento in autotutela: la SCIA non è tecnicamente un atto annullabile

A meno di non voler continuare a sostenere ad oltranza gli orientamenti interpretativi provvedimentalistici del passato – oggi, si è visto, palesemente anacronistici e contrastanti, in modo abbastanza evidente, con il dato normativo – dobbiamo prendere atto, alla luce di quanto ho tentato di illustrare fin qui, che né la SCIA, né il silenzio dell’amministrazione che eventualmente la segua hanno alcun valore di provvedimento amministrativo.

Questo ci porta allora alla risposta al primo dei quesiti che ci siamo posti (se la SCIA sia o meno annullabile), che risulta praticamente scontata, considerato il fatto che il potere di annullamento in sede di autotutela, a mente degli articoli 21 octies[9] e 21 nonies[10] della L. 241/1990, può propriamente essere esercitato solo avverso provvedimenti soggettivamente ed oggettivamente amministrativi e non contro atti soggettivamente ed oggettivamente privati, come invece sono definite oggi le SCIA (e simmetricamente le DIA) usando le parole del Consiglio di Stato.

Chiarito che di annullamento non si può neppure parlare, e che quando lo facciamo lo facciamo impropriamente[11], bisogna però fare attenzione al ruolo che riveste l’amministrazione all’interno del procedimento per SCIA, ai poteri che deve esercitarvi e alla possibilità di farlo anche tardivamente.

Sappiamo che, secondo il comma 3 dell’art. 19 L. 241/1990[12], l’amministrazione è titolare di un potere di controllo nel merito della SCIA presentata e, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale per l’attività oggetto di SCIA, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione (in generale, trenta nel caso di SCIA edilizia NdR) è tenuta ad adottare provvedimenti (motivati) di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti dannosi (c.d. poteri inibitori) oppure, nel caso in cui sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, di imporre al richiedente di compiere entro un termine quanto necessario a conformarsi, fornendogli, nell’eventualità, le opportune prescrizioni (c.d. poteri conformativi).

Laddove l’amministrazione non si muova nel termine, ai sensi del comma 4 dell’art. 19 citato, è stabilito che essa debba adottare comunque i provvedimenti inibitori o conformativi rituali, ma possa procedervi solo “in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies”, ovvero quelle stesse condizioni che legittimerebbero, se vi fosse un provvedimento amministrativo, il suo annullamento d’ufficio e segnatamente: (1) che sussistano ragioni di interesse pubblico (aggiungo, concrete ed attuali) ad adottare tardivamente i provvedimenti inibitori o confermativi e (2) che l’adozione di tali provvedimenti intervenga entro uno spazio temporale ragionevole, non superiore a diciotto mesi.

Ecco dunque da dove nasce l’equivoco: l’articolo 19, per porre un limite al potere di controllo dell’amministrazione sulla SCIA richiama i presupposti per l’annullamento, e per questo il suo significato viene frainteso, ma a una lettura attenta appare chiaramente come lo stesso articolo di annullamento (e non a caso) non parli mai.

L’esercizio tardivo dei poteri inibitori e conformativi e il termine di diciotto mesi

Come visto, la disciplina della SCIA non prevede l’annullamento in autotutela e, conseguentemente, nessun termine ragionevole per provvedervi.

Quello che invece questa disciplina prevede è l’esercizio funzioni di vigilanza sull’attività del privato (oggetto di SCIA) da parte della pubblica amministrazione, che si esplicano nell’adozione (eventuale) di provvedimenti inibitori o conformativi.

Tale attività di vigilanza si dipana su due livelli temporali successivi: il primo entro il termine di 60 giorni dal deposito della SCIA, in cui il potere di vigilanza è pieno, e il secondo entro i successivi diciotto mesi, in cui il potere di vigilanza può essere esercitato se sostenuto dalla sussistenza di un interesse pubblico rilevante.

Scaduto il secondo termine cessa il potere di vigilanza della pubblica amministrazione competente sull’attività di cui alla SCIA.

Un termine di diciotto mesi, rispondendo al secondo dei quesiti che abbiamo posto all’inizio, è dunque previsto anche con riferimento alla SCIA, ma il suo decorso non inibisce l’esercizio di un (in realtà inesistente) potere di annullamento, ma l’esercizio delle funzioni di vigilanza dell’amministrazione sull’attività oggetto di SCIA.

Quanto alla decorrenza di tale termine, l’art. 2 comma 4 del D.Lgs n. 222/2016 (c.d. decreto SCIA 2) ha colmato un vuoto normativo inizialmente relitto, specificando che esso decorre dalla scadenza del termine ordinario (sessanta giorni secondo la disciplina generale, trenta per l’edilizia).

Riflessioni conclusive

Spero che alla fine di questo piccolo lavoro sia emerso chiaro come il regime della SCIA abbia ormai assunto una fisionomia matura e si sia, direi completamente, affrancato dalla condizione di vassallaggio rispetto al paradigma classico dell’agire amministrativo per provvedimenti.

Certo, non è facile abbandonare i vecchi abiti mentali, specie se li abbiamo vestiti a lungo, ma bisogna prendere atto che l’ordinamento sta andando in una direzione diversa rispetto a quella a cui siamo abituati.

Oggi la SCIA costituisce il regime largamente più utilizzato per gestire i rapporti tra amministrazione e attività private e, seppur non lo si possa ritenere sempre adeguato all’impresa, è necessario che tutti gli operatori ne acquisiscano le logiche e le particolarità e comincino a concepirlo come un sistema a se stante e non, come si è fatto fino ad oggi, come il cugino povero del procedimento di autorizzazione, su cui stabilire finte simmetrie.

Finché non entreremo in quest’ottica e finché distinzioni, logiche e particolarità come quelle che ho tentato di descrivere in queste righe non saranno percepite in modo automatico non avremo accesso ad una parte sostanziale delle funzionalità che, volenti o nolenti, la macchina amministrativa oggi ci mette a disposizione.

Cercare di guidare una macchina con il freno a mano tirato dà poche soddisfazioni e generalmente provoca disastri.


Note

  1. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2016, p. 530.
  2. In questo senso, tra le tante, Cons. St. n. 2558/2010, Cons. St. n. 3263/2010 e Cons. St. n. 1423/2010; per una critica vedasi Cons. St. Ad. Plen. n. 15/2011, ¶ 5.2.
  3. Per la disamina di questo orientamento vedasi l’excursus tracciato da Cons. St. Ad. Plen. n. 15/2011, ¶ 5.3.
  4. L’art. 19 comma 3 L. 241/1990, nella formulazione assunta a seguito della novella introdotta tramite il D.L. n. 35/2005 conv. nella L. n. 80/2005, rimasta invariata fino alla riforma del 2015, prevedeva infatti che, in caso di mancata adozione nei termini dei provvedimenti inibitori di rito fosse fatto “… comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies…” richiamando dunque l’intera disciplina sia della revoca che dell’annullamento in autotutela, entrambe strutturate per incidere, se non su un atto dell’amministrazione, quantomeno su di un titolo che comunque assumesse carattere amministrativo.
  5. Perché dicevano più di quel che era coerente dire e la loro esistenza generava più questioni di quante ne risolvesse. Sarebbe interessante immaginare, ad esempio, cosa avrebbe potuto essere del nascituro regime della CILA se queste parole non fossero state cancellate.
  6. Consiglio di Stato Parere n. 839/2016 sul sito Giustizia Amministrativa, fruibile da https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/ucm?id=xmibpmb6zqwjojx74igrlkvsyu, link verificato il 27.11.2019.
  7. Cfr. Consiglio di Stato, Parere n. 839/2016 cit. ¶ 3.1.
  8. Cfr. Consiglio di Stato, Parere n. 839/2016 cit. ¶ 3.2.
  9. L. 241/1990, art. 21 octies “Annullabilità del provvedimento – 1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Testo vigente al 27.11.2019.
  10. L. 241/1990, art. 21 nonies “Annullamento d’ufficio – 1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. 2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. 2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”. Testo vigente al 27.11.2019.
  11. Anche se spesso e spesso in “sede ufficiale”, come ad esempio in TAR Lazio n. 4728/2018.
  12. L. 241/1990, art. 19 “Segnalazione certificata di inizio attività – Scia – 1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell’interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria. La segnalazione è corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti negli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, nonché , ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte dell’Agenzia delle imprese di cui all’articolo 38, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, relative alla sussistenza dei requisiti e dei presupposti di cui al primo periodo; tali attestazioni e asseverazioni sono corredate dagli elaborati tecnici necessari per consentire le verifiche di competenza dell’amministrazione. Nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti. La segnalazione, corredata delle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonché dei relativi elaborati tecnici, può essere presentata mediante posta raccomandata con avviso di ricevimento, ad eccezione dei procedimenti per cui è previsto l’utilizzo esclusivo della modalità telematica; in tal caso la segnalazione si considera presentata al momento della ricezione da parte dell’amministrazione. 2. L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata, anche nei casi di cui all’articolo 19-bis, comma 2, dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente. 3. L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Con lo stesso atto motivato, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale, l’amministrazione dispone la sospensione dell’attività intrapresa. L’atto motivato interrompe il termine di cui al primo periodo, che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle suddette misure. In assenza di ulteriori provvedimenti, decorso lo stesso termine, cessano gli effetti della sospensione eventualmente adottata. 4. Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies. 4-bis. Il presente articolo non si applica alle attività economiche a prevalente carattere finanziario, ivi comprese quelle regolate dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e dal testo unico in materia di intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 5. (omissis). 6. Ove il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni. 6-bis. Nei casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni di cui al primo periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 e al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380, e dalle leggi regionali.(19) 6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

E’ stata pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Toscana n. 4 del 15 febbraio 2017 la L.R. n. 3/2017 recante “Disposizioni per il recupero del patrimonio edilizio esistente situato nel territorio rurale. Modifiche alla L.R. 65/2014.

Tale normativa è stata emanata sulla base dell’esigenza, nelle more dell’adeguamento della disciplina comunale, di dare impulso al recupero del patrimonio edilizio esistente quale alternativa al consumo di nuovo suolo, nonché di contribuire alla valorizzazione del territorio rurale, con misure volte a incentivare il recupero e la rifunzionalizzazione degli edifici abbandonati, nel rispetto delle disposizioni della legge regionale sul governo del territorio e del Piano di Indirizzo Territoriale con valenza di piano paesaggistico (PIT) della Regione Toscana.

La legge è suddivisa in due capi e consta di sei articoli.

Il Capo I (artt. da 1 a 5) contiene le “Disposizioni per il recupero del patrimonio edilizio abbandonato nel territorio rurale”, mentre il capo II (art. 6) contiene la disposizione modificativa dell’art. 95 L.R.T n. 65/2014 relativa all’integrazione del contenuto dei piani operativi comunali con riferimento alla disciplina del patrimonio edilizio esistente nel territorio rurale.

La normativa in commento riguarda le residenze rurali abbandonate, per tali dovendo intendersi quelle non utilizzate da più di cinque anni a ritroso dalla data di entrata in vigore della legge (art. 1 comma 3, lett. a), nonché gli edifici in condizioni di degrado igienico sanitario (art. 1 comma 3, lett. b), connotati dall’esistenza di una o più delle seguenti caratteristiche:

1) precarie condizioni di staticità dovute alla vetustà o a inadeguate tecniche costruttive (art. 1 comma 3, lett. b, n. 1);

2) diffusa fatiscenza delle strutture e delle finiture degli edifici o inadeguatezza tipologica degli edifici rispetto alle esigenze funzionali anche per carenza o insufficienza degli impianti tecnologici (art. 1 comma 3, lett. b, n. 2);

3) mancanza o insufficienza degli impianti igienico-sanitari (art. 1 comma 3, lett. b, n. 2);

4) ridotte condizioni di abitabilità e di utilizzazione per insalubrità (art. 1 comma 3, lett. b, n. 4).

Sono esclusi dall’applicazione della normativa:

1) le residenze rurali abbandonate per le quali sia stato concesso un condono (1985/1994/2003), oppure per le quali siano state applicate le sanzioni pecuniarie per abuso edilizio e laddove detti condoni o sanzioni abbiano avuto ad oggetto incrementi volumetrici o di superficie utile abitabile (art. 1, comma 4, lett. a);

2) gli edifici assoggettati da strumento urbanistico comunale a restauro e risanamento conservativo (art. 1, comma 4, lett. b);

3) gli edifici ricadenti in area caratterizzata dalla più elevata pericolosità geomorfologica ed idraulica (art. 1, comma 4, lett. c);

4) gli edifici soggetti a vincolo d’interesse storico (art. 1, comma 4, lett. c).

Sugli edifici ricadenti nell’ambito di applicazione della normativa, fermo restando il divieto di cambio di destinazione d’uso agricola per vent’anni se edificati successivamente al 15.4.2007, si consentono, fino all’adeguamento degli strumenti di pianificazione urbanistica comunale agli intenti della legge e in deroga agli esistenti se contenenti norme più restrittive, una serie di interventi di recupero con addizione volumetrica, anche combinati con il cambio di destinazione d’uso agricola verso altre categorie funzionali, purché previste dalla pianificazione urbanistica comunale, da attuarsi una tantum, in coerenza con i caratteri architettonici e decorativi che qualificano l’edificio e gli spazi pertinenziali.

Più in particolare sono ammessi sono i seguenti interventi:

1) adeguamento dell’intero edificio alla normativa sul risparmio energetico o interventi di riparazione locale ai sensi della normativa sismica: aumento volumetrico 10% della superficie utile abitabile (SUA) legittima fino a un massimo di 40 mq (art. 4, comma 1, lett. a);

2) interventi di miglioramento sismico che garantiscano il raggiungimento di un livello minimo di sicurezza non inferiore a 0,65 dell’indice di rischio assumendo come riferimento la direttiva regionale D1.9 di cui alla DGR n.420/2010, oppure, se nella configurazione iniziale l’edificio abbia già un coefficiente inferiore a 0,65, per l’incremento del coefficiente di almeno il 10%: aumento volumetrico del 15% della SUA legittima fino a un massimo di 50 mq (art. 4, comma 1, lett. b);

3) interventi di adeguamento sismico dell’intero edificio secondo la vigente disciplina sismica: aumento volumetrico del 20% della SUA legittima fino a un massimo di 70 mq (art. 4, comma 1, lett. c);

4) esecuzione combinata degli interventi di cui sopra: aumento volumetrico del 25% della SUA legittima fino a un massimo di 90 mq (art. 4, comma 1, lett. d).

In caso di edifici soggetti a restauro e risanamento conservativo, per i quali è preclusa l’attuazione degli interventi di cui sopra, le addizioni previste possono essere realizzate attraverso interventi di ristrutturazione edilizia ricostruttiva degli eventuali volumi secondari siti nelle aree di pertinenza, laddove siano privi di valore (art. 2, comma 5).

La legge dispone inoltre che agli interventi di recupero di cui sopra il comune possa applicare una riduzione minima del 50% degli oneri specifici (art. 2, comma 6).

Dal lato procedimentale, la legge dispone che gli interventi sopra descritti sono soggetti a permesso per costruire (art. 3, comma 1), rilasciabile previa verifica della sussistenza delle condizioni di legge sopra illustrate (art. 3, comma 2).

La richiesta di permesso deve contenere le dichiarazioni necessarie alla verifica dello stato di abbandono (dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà) e della presenza delle condizioni di degrado (relazione tecnica asseverata) (art. 3, comma 3).

Il titolo abilitativo deve inoltre contenere la documentazione attestante i livelli di risparmio energetico o il raggiungimento del livello minimo di sicurezza sismica da conseguire, da attestarsi in sede di certificazione di agibilità (art. 2, comma 2).

Rispetto alle incombenze a carico dei comuni, la legge dispone alcuni oneri di integrazione degli strumenti di pianificazione urbanistica comunale.

In particolare i comuni devono integrare il quadro conoscitivo dei propri strumenti urbanistici sulla presenza di immobili abbandonati alla scadenza di ogni quinquennio dall’adozione del piano operativo comunale (POC).

I comuni devono inoltre integrare la disciplina del proprio territorio rurale con specifiche disposizioni volte al recupero del patrimonio esistente, con norme che dovranno conformarsi ai seguenti criteri: indicazione delle sole destinazioni d’uso non ammesse nell’ambito degli interventi di rifunzionalizzazione degli edifici abbandonati ai soli fini della tutela paesaggistica delle componenti del territorio rurale; definizione di specifica disciplina sugli interventi edilizi ammissibili  in modo da dare la più ampia attuazione dell’art. 79 LRT 65/2014, con particolare riferimento alle addizioni  volumetriche e agli interventi di sostituzione edilizia.

I comuni poi possono prevedere una misura premiale consistente in un’ulteriore riduzione progressiva degli specifici oneri nell’ambito degli interventi di cui alla legge in commento, in misura proporzionale, e fino alla loro eliminazione, sulla base dell’effettivo conseguimento degli obiettivi di recupero definiti dalla disciplina comunale sul patrimonio edilizio esistente.

Infine, onde monitorare gli effetti applicativi della legge in commento, a partire dalla sua entrata in vigore i comuni sono tenuti a trasmettere alla Giunta regionale, con cadenza annuale, una relazione che renda conto delle pratiche edilizie in corso o concluse in attuazione della legge. La Giunta regionale, a sua volta, sulla base dei dati ottenuti dai comuni, dovrà inviare annualmente una relazione informativa alla competente commissione consiliare.

L’ultimo articolo della legge prevede infine una modifica all’art. 95 della LRT 65/2014, con inserimento, tra i contenuti del POC, della “specifica disciplina di cui all’art. 4 della legge regionale 7 febbraio 2017 n. 3”.

L’entrata in vigore, secondo la disciplina ordinaria, è prevista decorsi 15 giorni dalla pubblicazione, quindi il 2 marzo 2017.

Per un primo approfondimento tecnico sull’argomento segnalo il videocorso dell’Ing. Carlo Pagliai a questo link.

E’ stata pubblicata sul Bollettino ufficiale regionale (BURT Parte Prima n. 58 del 30.12.2016) la Legge Regionale Toscana n. 91/2016 recante “Misure urgenti e straordinarie volte al rilancio dell’economia e alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Proroga del termine per la presentazione dei titoli abilitativi previsti dalla l.r. 24/2009. Modifiche alla l.r. 65/2014 e misure per accelerare la realizzazione di opere e interventi da parte degli enti locali”, la cui entrata in vigore è prevista per il giorno successivo alla pubblicazione (31.12.2016).

L’art. 4 della legge in parola proroga fino al 31 dicembre 2018 il termine per la presentazione delle SCIA o delle richieste di permesso per costruire relative agli interventi previsti dalla L. R. Toscana n. 24/2009, il c.d. “Piano Casa della Toscana”.

Ricordiamo che la L.R. Toscana 24/2009 ammette, in estrema sintesi, l’esecuzione sul patrimonio edilizio esistente, sia residenziale che industriale / artigianale, di interventi straordinari di ampliamento in deroga ai parametri edilizi e urbanistici, come da specchietto che segue:

Su edifici residenziali Su edifici non residenziali
Ampliamento solo 20% della superficie utile lorda fino a un massimo di 70 mq 20% della superficie utile lorda
Ampliamento con demolizione e ricostruzione dell’esistente 35% della superficie utile lorda 35% della superficie utile lorda

Sono esclusi dalle disposizioni di favore gli interventi su edifici abusivi, su edifici compresi nei centri storici, su immobili vincolati e su immobili ricadenti in aree soggette a vincolo di inedificabilità assoluta o che richiedano piani attuativi.

Il medesimo art. 4 della La L.R. 91/2016 aggiunge inoltre un comma 2 bis all’art. 7 della L.R. 24/2009, secondo cui, a decorrere dall’entrata in vigore, i comuni possono prevedere nei propri piani operativi o relative varianti, oppure nelle varianti ai regolamenti urbanistici, ampliamenti volumetrici a titolo di premialità in relazione alla realizzazione di interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente. In tali casi, i comuni, dandone espressamente atto, possono escludere l’applicazione della L.R. 24/2009 nel territorio di competenza.

Link alla L.R. Toscana n. 91/2016

La vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato.

La natura giuridica delle varianti, di solito, è tuttavia ampiamente misconosciuta, pertanto, in questo articolo voglio soffermarmi sulle distinzioni di base che interessano l’istituto.

La giurisprudenza distingue le varianti in tre macro-tipologie, ciascuna dotata di proprie peculiarità: le varianti in senso proprio, le varianti essenziali e le varianti minime.

Andiamo dunque per ordine ad individuarne gli elementi distintivi

Varianti in senso proprio

Le varianti in senso proprio si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato.

La nozione di variante deve, in altre parole, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario.

Gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.

Se qualificato come variante in senso proprio, il nuovo provvedimento, che dovrà essere rilasciato col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire, rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, in un rapporto di complementarità e di accessorietà a questo.

Questo collegamento giustifica la peculiarità del regime giuridico a cui soggiace il permesso in variante sul piano sostanziale e procedimentale richiesto al procedimento per il rilascio di un nuovo titolo abilitativo, ovverosia la salvezza di tutti i diritti quesiti, specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta (che non è da considerarsi applicabile).

Varianti essenziali

Si parla di variante essenziale quando si vogliono introdurre modifiche incompatibili col disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, sia sotto l´aspetto qualitativo sia sotto l´aspetto quantitativo.

Non si tratta solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un´opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.

L´ambito di questo istituto è delineato sulla scorta della definizione di variazione essenziale contenuta nell’art. 32 del DPR 380/2001, che ricomprende:

– il mutamento della destinazione d´uso implicante alterazione degli standard;

– l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio;

– le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi;

– il mutamento delle caratteristiche dell´intervento edilizio assentito;

– la violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.

A differenza delle varianti in senso proprio, le domande di esecuzione di varianti essenziali sono da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, sono assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate: in questo caso i diritti acquisiti non sono salvi ed eventuali interventi normativi sopravvenuti contrastanti con l’intervento si applicano.

Varianti minori

Sono quelle previste dall’art. 22, comma 2, del DPR 380/2001, subordinate a SCIA., che costituiscono categoria a sé.

Si tratta di quelle variazioni che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d´uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.

In queste ipotesi, la SCIA costituisce “parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale” e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori.

Come per le varianti in senso proprio i diritti acquisiti sono salvi, e, in più, la variante può essere eseguita prima di essere presentata.

Con le varianti di questo tipo, il sistema consente, dunque, la possibilità di dare corso ad alcune opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti di varianti leggere, contenute nei limiti di cui all’art. 22 sopra citato.

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Quello di “territorio rurale” è uno di quei concetti tanto chiari nel senso comune (è campagna quel che non è città) quanto fumosi nel senso giuridico (in cui conta stabilire cosa sia città e cosa campagna).

A livello uniforme, si può azzardare una definizione in negativo: è territorio rurale ciò che è esterno al territorio urbanizzato.

Qui finiscono le generalizzazioni: quel che è interno al territorio urbanizzato e quel che è rurale lo stabiliscono le varie leggi regionali.

Per quel che concerne la regione Toscana, la disciplina del territorio rurale è contenuta nel capo III del titolo IV della legge regionale n. 65/2014 (Norme sul governo del territorio), titolato, appunto, “Disposizioni sul territorio rurale”, in venti articoli (da 64 a 84) recentemente novellati dalla L. R. Toscana n. 43 del 8.7.2016 (Norme per il governo del territorio. Misure di semplificazione e adeguamento alla disciplina statale. Nuove previsioni per il territorio agricolo. Modifiche alla l.r. 65/2014, alla l.r. 5/2010 e alla l.r. 35/2011).

Tali disposizioni sono integrate da quelle del regolamento di attuazione dell’articolo 84 della medesima legge regionale, contenente disposizioni per la qualità del territorio rurale (DPGR Toscana n. 63R del 25 agosto 2016).

La disciplina legale si suddivide in quattro sezioni: una prima sezione denominata “disposizioni generali”, contenente la disciplina della pianificazione rurale, la seconda e la terza contenenti la disciplina delle trasformazioni edilizie, differenziata a seconda che siano effettuate da imprenditori agricoli (sez. II) o da soggetti che non rivestono questa qualità (sez. III) e infine la quarta che disciplina il mutamento di destinazione d’uso agricola degli edifici, in cui è incluso anche l’art. 84 che tratta del contenuto del regolamento di attuazione.

In questo articolo voglio limitarmi a delineare uno schema di base della disciplina, rimandando ogni approfondimento ad eventuali futuri articoli.

Nella citazione delle disposizioni, dove non specifico, mi riferisco agli articoli e ai riferimenti (titoli, capi, sezioni ecc) della legge regionale.

I. Disposizioni generali

Il territorio rurale è definito dall’art. 64.

La definizione è in parte in positivo, in parte in negativo.

In positivo, il territorio rurale viene definito come composto da:

  • le aree agricole e forestali individuate come tali negli strumenti della pianificazione territoriale urbanistica di seguito denominate “aree rurali”;

  • i nuclei ed insediamenti anche sparsi in stretta relazione morfologica, insediativa e funzionale con il contesto rurale, di seguito denominati “nuclei rurali”;

  • le aree ad elevato grado di naturalità;

  • le ulteriori aree che, pur ospitando funzioni non agricole, non costituiscono territorio urbanizzato.

Residualmente il territorio rurale è definito in negativo nel seguente modo:  “E’ comunque considerato territorio rurale tutto ciò che è esterno al territorio urbanizzato come definito dall’articolo 4 (ovvero il territorio su cui insistono “i centri storici, le aree edificate con continuità dei lotti a destinazione residenziale, industriale e artigianale, commerciale, direzionale, di servizio, turistico-ricettiva, le attrezzature e i servizi, i parchi urbani, gli impianti tecnologici, i lotti e gli spazi inedificati interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria” NdR) e come individuato negli atti di governo del territorio comunali in conformità alla presente legge, al PIT, al PTC e al PTCM.

Il medesimo articolo 64 stabilisce i criteri per la pianificazione del territorio rurale, che vengono poi sviluppati nei successivi articoli della prima sezione.

La stessa definizione individua dei contenuti minimi di pianificazione, suddivisibili in due tronconi: aree ed edifici.

Per quanto riguarda le aree, si possono individuare tre categorie: aree rurali propriamente dette (art. 64 co. 1 lett. a), aree ad elevato grado di naturalità (art. 64 co. 1 lett c) e aree con funzioni non agricole (art. 64 co. 1 lett. d), escluse queste ultime di principio dalla disciplina dell’intero capo a meno che non vengano ricomprese specificatamente all’interno del territorio rurale con atto di pianificazione previo parere favorevole della conferenza di copianificazione di cui all’art. 25.

All’interno delle aree rurali propriamente dette si possono individuare gli ambiti di pertinenza dei centri e nuclei storici (art. 64 co. 3 lett. a e art. 66), gli ambiti periurbani (art. 64 co. 3 lett. b e art. 67) e i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico (art. 64 co. 3 lett. c).

Per quanto riguarda gli edifici (art. 64 co. 1 lett. b e art. 65), essi si distinguono in nuclei rurali ed edifici sparsi e all’interno dei nuclei rurali si può delineare il sottoinsieme dei centri e nuclei storici (art. 64 co. 3 lett. a e art. 66).

Nella prima sezione vengono inoltre delineati gli obiettivi della pianificazione, ricompresi nella definizione di “qualità del territorio rurale” (art. 68), nonché il limite esterno del potere di pianificazione, che non può dettare prescrizioni in merito alle scelte agronomico-cultuali, anche poliennali, delle aziende (art. 69).

II. Disciplina delle trasformazioni

In tema di trasformazioni edilizie, la normativa impone alcune differenziazioni.

La prima grande differenziazione è data dalla sussistenza della qualità di imprenditore agricolo in capo a chi vuol effettuare l’intervento.

La sezione II delinea la disciplina delle trasformazioni effettuabili dall’imprenditore agricolo, introducendo un altro spartiacque, costituito dalla presenza o meno di un programma aziendale, che, a certe condizioni, può aver anche valore di piano attuativo ai sensi dell’art. 107, che viene definito nei contenuti dall’art. 74 della legge e dagli artt, da 7 a 10 del regolamento di attuazione e la cui realizzazione è garantita da una convenzione o da un atto unilaterale d’obbligo.

In massima sintesi, la presenza di un programma aziendale permette l’effettuazione di interventi maggiormente invasivi (ristrutturazioni urbanistiche, nuove costruzioni anche ad uso abitativo ecc.) rispetto a quelli effettuabili in assenza di esso.

Le tipologie di interventi realizzabili con o senza programma aziendale sono stabilite dagli artt. da 70 a 74 della L.R. e dagli artt. da 1 a 6 del regolamento.

Nella medesima sezione si detta altresì la disciplina dell’asservimento di immobili a destinazione commerciale o industriale allo svolgimento di attività agricola (art. 75 L.R. integrato dall’art. 11 Reg.), e viene disposto un vincolo decennale di inedificazione (salvo qualche eccezione specificatamente indicata) in caso di trasferimento o affitto di fondi al difuori del programma aziendale (art. 76).

La successiva sezione III disciplina le trasformazioni effettuabili da soggetti diversi dagli imprenditori agricoli, ridotte rispetto a quanto effettuabile dalle aziende agricole, specie con programma aziendale.

Si disciplinano dunque le trasformazioni delle aree di pertinenza degli edifici (art. 77), la realizzazione di manufatti per l’attività agricola amatoriale e per il ricovero di animali domestici (art. 78 L.R. e artt. 12 e 13 Reg.), nonché gli interventi sul patrimonio edilizio esistente con destinazione non agricola (art. 79), orientati sostanzialmente alla conservazione e al miglioramento funzionale, nel rispetto della ruralità del contorno.

Si detta inoltre la disciplina degli interventi in aree soggette a vincolo idrogeologico e delle opere antincendi boschivi (art. 80).

III. I mutamenti di destinazione d’uso agricola degli edifici

La sezione IV tratta dei mutamenti della destinazione d’uso agricola degli edifici, inserendo diverse limitazioni.

In via generale sono stabiliti il divieto di mutamento di destinazione d’uso in perpetuo per gli annessi agricoli e per venti anni per gli edifici rurali ad uso abitativo, laddove edificati con dichiarazione inizio lavori successiva al 15.4.2007 (art. 81).

Per gli edifici rurali anche ad uso abitativo edificati con dichiarazione inizio lavori antecedente a tale data è invece possibile mutare la destinazione d’uso, ma alle condizioni di cui all’art. 82 (mutamento della destinazione d’uso agricola mediante programma aziendale) e 83 (interventi sul patrimonio edilizio che comportano il mutamento della destinazione d’uso agricola.

Link

Norme per il governo del territorio (LR Toscana n. 65/2014)

Regolamento di attuazione dell’articolo 84 della legge regionale 10 novembre 2014 n. 65 (Norme per il governo del territorio) contenente disposizioni per la qualità del territorio rurale (DPGR Toscana n. 63/R/2016)

acqua

Lo scorso 19 agosto è stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Toscana (BURT parte I n. 37) il Decreto del Presidente della Giunta Regionale n. 61/R del 16 agosto 2016, che detta il “Regolamento di attuazione dell’articolo 11 commi 1 e 2 della legge regionale 28 dicembre 2015, n. 80 (norme in materia di difesa del suolo, tutela delle risorse idriche e tutela della costa e degli abitati costieri) recante disposizioni per l’utilizzo razionale della risorsa idrica e per la disciplina dei procedimenti di rilascio dei titoli concessori e autorizzatori per l’uso di acqua. Modifiche al d.p.g.r. 51/R/2015”.

Il regolamento in parola è stato emesso, come da rubrica, in adempimento al disposto dell’art. 11 della L.R. 80/2015, che stabiliva l’onere per la regione di emanare entro centocinquanta giorni dalla sua entrata in vigore, uno o più regolamenti volti a garantire, in modo omogeneo su tutto il territorio regionale, la riduzione dei consumi da parte degli utilizzatori di acque (comma 1), nonché a delineare la disciplina dei procedimenti per il rilascio dei titoli concessori e autorizzatori per il prelievo di acqua pubblica e la ricerca di acqua (comma 2).

Il nuovo regolamento, suddiviso in 5 titoli, è finalizzato alla tutela della risorsa idrica nell’ottica del contenimento dei consumi, della prevenzione delle crisi idriche e della riduzione dei costi ambientali, e delinea una disciplina dettagliata riguardo l’utilizzo (e i limiti all’utilizzo) della risorsa idrica a fini energetici, agricoli, produttivi e domestici, il risparmio idrico e il riutilizzo, la perforazione e captazione, i relativi procedimenti autorizzatori, le garanzie e le sanzioni.

Il testo è corredato di quattro allegati, che riportano tabelle ed elenchi riguardanti l’uso degli acquedotti, il livello di efficienza potenziale degli impianti di irrigazione, i criteri per la valutazione dei fabbisogni irrigui e i contenuti delle domande, delle comunicazioni e gli allegati tecnici.

Lo schema è il seguente:

  • TITOLO I – DISPOSIZIONI GENERALI
  • TITOLO II – DISPOSIZIONI PER L’UTILIZZO RAZIONALE DELLA RISORSA IDRICA
    • Capo I – Condizioni e criteri per il rilascio di concessioni di derivazione
    • Capo II – Perforazioni ed estrazioni di acque finalizzate al controllo piezometrico e alle estrazioni locali di acque calde a fini geotermici
    • Capo III – Disposizioni per la determinazione dei canoni di derivazione delle acque
    • Capo IV – Disciplina degli usi domestici delle acque sotterranee
    • Capo V – Misure incentivanti il riciclo e il riutilizzo
    • Capo VI – Disposizioni in materia di misurazione dei prelievi e delle restituzioni di acqua pubblica. Modifiche al DPGR 51/R2015 (Regolamento di attuazione dell’articolo 12 bis, comma 4 lettere E) ed F) della legge regionale 11 Dicembre 1998, n. 91 – Norme per la difesa del suolo. Disciplina degli obblighi di misurazione delle portate e dei volumi dei prelievi e delle restituzioni di acqua pubblica e delle modalità di trasmissione dei risultati delle misurazioni).
  • TITOLO III – PROCEDIMENTI PER IL RILASCIO DEI TITOLI CONCESSORI E AUTORIZZATORI RELATIVI AL PRELIEVO DI ACQUA PUBBLICA
    • Capo I – Avvio del procedimento e istruttoria
      • Sezione I – Disposizioni generali
      • Sezione II – Disposizioni in materia di produzione di energia elettrica da fonte idraulica
      • Sezione III – Disposizioni in materia di acque sotterranee
    • Capo II – Conclusione del procedimento ed esecuzione dei lavori
    • Capo III – Garanzie
    • Capo IV – Procedimenti connessi
    • Capo V – Estinzione della concessione
    • Capo VI – Procedure semplificate
    • Capo VII – Disciplina dell’uso plurimo delle acque
  • TITOLO IV – SANZIONI
  • TITOLO V – NORME TRANSITORIE E FINALI
  • ALLEGATO A – USI DEGLI ACQUEDOTTI
  • ALLEGATO B – LIVELLO DI EFFICIENZA POTENZIALE DEGLI IMPIANTI DI IRRIGAZIONE
  • ALLEGATO C – CRITERI PER LA VALUTAZIONE TECNICA DEI FABBISOGNI IRRIGUI
  • ALLEGATO D – CONTENUTI E DELLE DOMANDE, DELLE COMUNICAZIONI E ALLEGATI TECNICI

Di seguito il link al provvedimento in formato pdf

Testo del DPGR Toscana n. 61/R/2016

Aggiornamento dello 11.9.2016: di seguito pubblico l’avviso di rettifica del provvedimento comparso sul BURT Parte Prima n. 39 del 9 settembre 2016 a correzione di alcuni refusi non corretti in sede di pubblicazione sul bollettino.

Avviso di rettifica del 9.9.2016 (BURT Parte Prima n. 39 del 9.9.2016)